Copertina di un libro con sfondo rosa, mostra una foto di una cintura con una fibbia a forma di stella e un lato di un paio di jeans. Testo in italiano che dice "Con la L Maiuscola" e informazioni sul contenuto del libro riguardanti ritratti di lesbiche e discussioni su pronomi, identità e rivoluzioni, scritto da Martina Pilloni.

Con la L Maiuscola (2025)

Cagliari, 2025 — Questo è un progetto fotografico nato dalla necessità di raccontare le storie della comunità lesbica e creare connessioni. Attraverso le immagini e le parole, affrontiamo lo stigma che ancora circonda la parola “lesbica” — una parola che abbiamo imparato a temere ed evitare, perché troppo spesso caricata di vergogna, giudizio o riduzione. Raccontiamo cosa significa, per noi, riconciliarsi con quella parola, ridefinirla, farla propria.

Il progetto apre anche una riflessione sulla nostra lingua e sui suoi limiti, soprattutto quando si tratta di descrivere esperienze fuori dai margini del maschile e del femminile. Usare pronomi neutri, parlare di sé senza incasellarsi, è ancora un terreno accidentato, di cui si parla poco, ma necessario da esplorare.

Parliamo anche del rapporto con la femminilità e la mascolinità, e del modo in cui molt* di noi rifiutano il binarismo di genere, o abitano spazi fluidi, autentici. I corpi, gli abiti, i gesti che scegliamo raccontano la nostra storia quanto le parole.

Questa serie fotografica è un invito a guardare, ascoltare, riconoscersi e riconoscere. A costruire uno spazio dove le identità possano esistere senza giustificarsi.

Ilaria

Ciao! Come ti chiami, quanti anni hai e di cosa ti occupi?
Mi chiamo Ilaria Todde, ho 33 anni e lavoro per un'organizzazione che si chiama EuroCentralAsian Lesbian* Community, la Comunità Lesbica dell’Europa e Asia Centrale. In questa organizzazione faccio quello che si chiama advocacy, quindi mi occupo di cercare di influenzare le decisioni delle Istituzioni europee per quello che ha a che fare con le lesbiche. Nel senso che la mia organizzazione si focalizza sulle lesbiche e quindi il mio lavoro è cercare di fare in modo che ogni qualvolta le Istituzioni europee o internazionali si occupano di questioni di genere o di questioni LGBTQ+, ci sia una prospettiva che include le persone e le donne lesbiche.

Che pronomi usi?
Allora, è una domanda che è sempre interessante per me, perché io per me stessa uso i pronomi femminili, però non mi dà nessun fastidio se le persone usano un pronome neutro o un pronome maschile per me, salvo che non sia in situazioni in cui la persona mi vuole aggredire, io lo trovo molto divertente. Per cui non mi interessa, però lo trovo più che altro divertente. Questo discorso del pronome è uno strumento che è utile secondo me in certe situazioni, però non mi interessa se una persona mi vede e usa un pronome maschile. Non mi disturba se una persona vuole usare il pronome neutro. Il pronome femminile è quello che credo mi rappresenti di più. Per cui a volte rispondo che li uso tutti, a volte rispondo: “Quello che vuoi”, quindi dipende un po' dalla situazione.

Ti posso chiedere quando hai capito di essere lesbica?
L’ho capito che ero abbastanza giovane, avevo 15 anni, credo. L'ho capito perché era strano che fossi l'unica della mia classe a cui non interessavano i maschi, e mi chiedevo: “Com’è possibile che a me proprio non me ne freghi niente?” E a forza di farmi questa domanda, a un certo punto mi sono detta: “Aspetta, ma forse vuol dire un'altra cosa!” E pian piano mi sono resa conto che quindi in realtà avevo interesse per le ragazze, avevo un'attenzione diversa. E quindi c'è stato un momento in cui mi sono proprio detta: “Ah, okay, quindi vuol dire quella cosa lì. Ma quindi quella cosa lì cosa vuol dire? Quali sono gli impatti?” Ricordo che era una questione su cui mi ero dovuta interrogare, dicevo: “Se lo sono, voglio essere sicura. Ma sono sicura?” E poi con il tempo ho capito che in realtà non ero sicura, perché la società ci impone l'eterosessualità, soprattutto se sei donna, se nasci donna, se nasci nel corpo femminile. Ti viene imposto che devi stare nell’eterosessualità. E quindi questo percorso qua è stato interessante. Però sì, ero giovane.

Da giovane, anche io. Anzi, già da da piccola mi ricordo che quando giocavo con le mie compagne io facevo sempre il maschio.
Anch’io, sempre. Però quella cosa lì in qualche modo ti dicono che è una cosa che passerà, che è una fase, no? Però io mi ricordo che giocavo con i miei cugini, mia cugina aveva la mia stessa età e lei voleva sempre fare la femmina e io invece no, volevo fare il maschio.

Sei sarda, però non vivi in Sardegna, giusto?
No, vivo a Bruxelles. Vivo e lavoro lì.

Qual è la differenza tra la comunità queer lesbica di Bruxelles da quella sarda?
Secondo me c'è un aspetto legato al fatto di essere in un'isola, anche piuttosto isolata dal resto dell'Europa. Non mi ricordo chi, ma c'è una compagna che parlava del “sud del nord globale”; questo secondo me ha un impatto sul fatto che comunque rimaniamo una comunità molto più piccola, la comunità lesbica e queer sarda, in cui si fanno anche delle riflessioni interessanti da un punto di vista politico, collegate anche con altre lotte – penso per esempio alla lotta anti-militarista –, e moltissime delle persone che io conosco che partecipano a questa lotta sono lesbiche e queer, e in qualche maniera questa cosa secondo me è interessante. Ha sempre a che fare col fatto che che le persone lesbiche e queer sono molto presenti in tutte le lotte, non solo quelle che ci riguardano direttamente, perché ovviamente se sei sarda il militarismo ti riguarda molto, quindi insomma è una comunità molto politicizzata e molto interessante, però piccola, siamo poche, tutto sommato. In comparazione, Bruxelles è un po' il contrario. Bruxelles è una comunità molto grande e molto varia, in cui c'è veramente un po' di tutto e quindi meno politicizzata. Anche perché da un punto di vista sociale il Belgio è un posto in cui, per esempio, si accetta l'omosessualità, ma anche le minoranze di genere o la diversità di genere. È molto più avanti dell'Italia in generale ed è una società molto varia. Ci sono molte persone che vengono dall'immigrazione, persone razzializzate. È più “cosmopolita”, se possiamo usare un termine che non mi piace del tutto. Però, insomma, è questo che rende un po' l'idea di una diversità maggiore e quindi di una varietà all'interno della comunità che è maggiore. E poi c'è anche l'aspetto socio-economico, nel senso che essere lesbica in un posto dove è più raro subire discriminazioni sul lavoro è diverso. Poi succede anche lì, eh. Però è meno frequente. Vuol dire anche avere accesso a un certo tipo di benessere socio-economico a cui non hai accesso qua in Sardegna. E quindi c'è anche un aspetto per cui si esce di più, anche perché ci sono i bar. In Sardegna secondo me un bar specificamente lesbico si dovrebbe domandare se possa sopravvivere qui. È sempre una questione molto importante, quindi secondo me ci sono un po' di differenze che vengono un po' da questo contesto. E poi viene un po' dal fatto che appunto lì la comunità è più varia, come origini, come background culturale, razzializzazione o no, eccetera. Però io trovo che ci sia anche una ricchezza nella comunità queer sarda che a me piace molto, ed è proprio questo aspetto dell’aver dovuto sviluppare un’intersezionalità che è un po' naturale per il fatto che non puoi limitarti alle tue lotte, devi necessariamente uscire e questa riflessione qua secondo me è interessante, anche se poi la guardi da una prospettiva più del nord dell'Europa.

Qua arriviamo all'attivismo di cui diciamo abbiamo parlato prima. Come si intrecciano il tuo essere attivista con l'identità lesbica? Forse è una domanda un po' ovvia.
In realtà no, non è così ovvia. Si intrecciano perché io sono attivista perché sono lesbica e sono lesbica perché sono attivista. È veramente così. Credo che crescere comunque in una minoranza di genere e sessuale e vivere in questa società che comunque è patriarcale, lesbofoba, transfobica, eccetera, ti mette in una posizione per cui ti dici: “Bisogna lavorare, cioè bisogna fare qualcosa per cambiare questa situazione”. Non tutt* poi fanno questa scelta, però avere quella prospettiva ti spinge a dire: “Voglio fare l'attivista, voglio cambiare le cose. Questa cosa qua in cui sono cresciuta non mi piace, cerchiamo di cambiarla”. E dall'altro lato io mi definisco lesbica anche e soprattutto come una prospettiva politica. Non è solo che mi definisco lesbica perché vado a letto con le donne. È una cosa importante, però non è il motivo per cui io mi definisco così. Io mi definisco lesbica perché tra le varie parole che esistono per definire la mia vita, “lesbica” è quella che dice che la mia esperienza di vita è influenzata non solo dal mio orientamento sessuale, ma anche dal mio genere o dal mio genere percepito. Come io mi sento è un conto, ma come gli altri mi percepiscono quando sono per strada o quando parlo con una persona, la parola “lesbica” questa cosa la dice. Ci sono altre parole che poi sono validissime e utili. Io però questa esperienza qua non la non la vedo nella parola “queer” o in altre parole, e quindi mi piace usarla per per definirmi proprio per questo motivo politico, perché dice che non sei una donna come le donne dovrebbero essere. E dice che sei una persona queer ma che sei anche soggetta alle oppressioni derivanti dall'essere o essere percepita come donna in una società patriarcale, e quindi mi fa entrare in questa dimensione della mia esistenza politica. Che è vero per tutt*, qualunque persona: la propria esistenza è politica, le scelte che fai sono politiche, eccetera. E quindi personalmente tengo molto a questa “etichetta”, tra virgolette. Per me è una parte importante, ma perché ha questo aspetto di attivismo qua, di denuncia sociale, di definizione di una posizione, chiarisce la mia posizionalità. Cose che altre etichette, che poi uso quando sono necessarie o quando non so come una persona si identifica, a me questa cosa non me la dicono.

Come è iniziato il tuo percorso in questa lotta?
È iniziato quando ero molto giovane. Sono andata all'università a Trento. Io sapevo che all'università avrei voluto fare attivismo. Ho fatto coming out con me stessa e un po' con gli altri, perché in realtà io ero out a scuola, con gli amici, con la mia famiglia. Però a Nuoro non avevo trovato un posto dove avere questo ruolo qua, anche perché ero giovane. Quindi vado a vivere a Trento, dove rimango sei mesi e mi guardo un po' intorno e sono un po' insoddisfatta di quello che trovavo in città a livello sociale, culturale, politico. Era un posto un po' piccolo e un po' conformista. Anche crescendo a Nuoro, che comunque è più piccola, è più isolata. Il conformismo che io vedevo a Trento rispetto alla mia adolescenza nuorese in realtà era molto diverso. E giravo con gente che era anche molto alternativa, che faceva una vita non così tanto nella norma. Poi studiavo Giurisprudenza, il che voleva dire essere immersa in questa realtà molto borghese, borghese del Nord Italia, quindi la vera borghesia coi soldi veri in Italia. Un livello culturale, sociale che non mi rappresentava. E quindi ho cominciato a fare attivismo facendo parte di ArciLesbica, ma non riesco neanche a vergognarmene. Perché là c'era quello. È iniziato tutto quando sono andata a un cineforum LGBTQ+ organizzato da una persona di cui non mi ricordo, forse lavorava per un'associazione studentesca. Dopo il film vado a parlare con la persona che l’aveva presentato e scopro che era il Presidente di Arcigay dell'epoca. Gli dico: “Guarda, io vorrei fare un po' di attivismo, come faccio? Sono appena arrivata, ho 19 anni.” E lui mi fa: “Ma tu sei lesbica, quindi niente, devi parlare con loro.” Quindi mi mandano dalle attiviste di ArciLesbica di Trento, e io in realtà ci sono rimasta dal 2012 al 2017, quindi circa cinque anni. Che poi il 2017 è l'anno in cui loro hanno preso definitivamente delle posizioni completamente transfobiche e quindi totalmente irricevibili. E io e un grosso gruppo che aveva cercato di portare l'organizzazione verso delle posizioni trans-inclusive, più in dialogo col movimento transfemminista, non ci eravamo riuscite, quindi eravamo uscite. Credo che fossero usciti cinque o sei circoli, più un grosso numero di attiviste individuali. Il 2016 è il momento in cui ho cominciato ad organizzare la mia partenza per Bruxelles. Però ho passato quattro anni a Trento gestendo questa organizzazione, organizzando dibattiti e momenti di confronto. A un certo punto io e un'altra persona ci siamo messe alla guida dell’associazione, eravamo entrambe molto giovani, entrambe universitarie e con la voglia di dire: “Dobbiamo un po' svecchiare questa situazione, togliere un po’ di ragnatele,” perché era un circolo sociale in cui andavi per farti le chiacchierate e invece noi volevamo un po' anche portare una riflessione politica e l'avevamo fatto per qualche anno e poi io sono partita. A Trento c'era quello, poi c'erano altri gruppi un po' più radicali, transfemministi, che giravano intorno a un centro sociale. Il problema è che era veramente un luogo misto, e in quel momento della mia vita, di stare in un luogo misto io non ne avevo nessuna voglia.

Adesso volevo chiederti del movimento di cui fai parte, EL*C, ovvero l’EuroCentralAsian Lesbian* Community, la Comunità Lesbica dell’Europa e Asia Centrale.
In realtà è stata un po' una transizione naturale. Continuando quello che stavo dicendo prima, io me ne vado a Bruxelles e nello stesso periodo nasce EL*C. Una delle cose che facevo in ArciLesbica, siccome parlavo inglese, era quella di occuparmi della parte internazionale, e quindi andavo per esempio alle riunioni di movimento LGBTQ+ europeo organizzato da ILGA-Europe, che è un'organizzazione ombrello LGBTI europea. E io andavo a queste conferenze. Durante una di queste c'era un workshop che si chiamava letteralmente “In che stato è il movimento lesbico europeo?” organizzato da quelle che poi sarebbero diventate le compagne con cui ho creato EL*C. E quindi questo workshop era interessante perché c'erano cinquanta o sessanta persone che venivano dall'Ucraina – stiamo parlando del 2017 –, dalla Serbia, dalla Francia, dall'Italia. Dicevano cose del tipo: “Ci sembra che il movimento lesbico o comunque la parte del movimento LGBTIQ+ che si focalizza sulle questioni di genere, stia un po' morendo,” nel senso che non ci sono soldi, non ci sono spazi, i bar lesbici stanno sparendo, non ci sono spazi in cui possiamo essere appunto in in una “non-mixità”. E in tutto questo stava anche venendo fuori tutta questa transfobia che ha preso piede, per esempio, nel 2017, il periodo in cui J. K. Rowling aveva cominciato a tirar fuori delle cose veramente complicate, e quindi in quel momento lì vennero fuori delle femministe lesbiche che si inserivano in questo discorso contro le donne trans, dicendo che mettevano a rischio le lesbiche e le donne. E un sacco di persone tra di noi diceva: “Ma prima di tutto chi è questa gente? E in secondo luogo, non ci rappresenta”, perché il nostro era un movimento lesbico inclusivo. E quindi EL*C nasce anche con l'idea di dire: “Dobbiamo far capire che non è vero che le lesbiche sono transfobiche.” Sì, ci sono delle lesbiche transfobiche, come ci sono delle lesbiche razziste, come ci sono dei gay abilisti, come ci sono dei gay razzisti e dei gay sionisti. Non è che essere LGBTQ+ ti rende immune dall'essere un oppressore. Però il movimento non è transfobico. Noi dicevamo questo. Le attiviste che erano là, ed eravamo comunque circa sessanta, venivano da trenta Paesi diversi. Il nostro focus è stato sempre quello di non escludere le donne trans. E quindi perché l'unica voce che usciva fuori era questa? E ovviamente la risposta era: perché fa comodo che esca questa voce qua, perché questa è la cosa interessante per i media, per la politica, eccetera. Per loro voleva poter dire: “Ah, guardate com'è diviso il movimento LGBT, guardate come sono intolleranti le lesbiche, come sono misogine le donne trans, eccetera.” E noi di questa cosa ce ne rendevamo conto. E quindi l'idea di creare un'organizzazione del genere era anche dire: “Dobbiamo tirare fuori, ricostruire un movimento europeo lesbico che possa anche finanziare i movimenti a livello locale, nazionale, grassroot ("di base", "popolare"), che possa anche dare soldi alle iniziative lesbiche”, perché i progetti lesbici si fanno senza soldi, quindi li fai per tre o quattro anni, anche cinque anni, ma al sesto anno devi fare altro, perché devi campare. I posti, se li apri, poi non c'è un modo per sostenerli. E poi c'è il discorso della visibilità, ed è quello che dicevo prima: l'identità lesbica è molto forte, ha una forte connotazione politica ma anche una forte connotazione simbolica. Se tu lasci vuoto, a disposizione, il concetto di “lesbica” qualcuno se lo prende, e in questo momento storico se lo prende l’estrema destra. Il che vuol dire che nel caso delle lesbiche, se lo prendono le lesbiche transfobiche. Quindi l'unica maniera per evitare che questo strumento vada in mano a gente che non ci piace è che noi ce lo teniamo e lo definiamo come vogliamo noi, perché poi è questa la cosa bella. Quindi EL*C aveva un po' questo obiettivo e ce l'ha tuttora, con la differenza che adesso sono passati quasi dieci anni. Sono passati otto anni dal 2017, e quindi siamo un'organizzazione che adesso riesce a pagare lo stipendio a sei persone in maniera fissa. Siamo anche noi un'organizzazione “ombrello”, quindi abbiamo circa 200 members che sono le organizzazioni che fanno parte del movimento. Abbiamo dei soldi che in questo momento vengono soprattutto dall'Unione europea, ma stiamo cercando di allargarci e trovare altre cose, uscire un po' da quella prospettiva lì, perché comunque è molto complicata e ti obbliga anche a fare dei compromessi che politicamente possono essere un po' così. E io lavoro all'interno di questa organizzazione, sono una delle direttrici. Usiamo il termine Dykerector. Quindi io mi occupo soprattutto della parte advocacy che, come dicevo prima, è proprio la parte di relazione con le Istituzioni europee. Per esempio, negli ultimi tre anni abbiamo dato dei finanziamenti per organizzazioni nostre in giro per l'Europa circa tre milioni di euro, che prima non sarebbero mai andati a delle attività lesbiche. Noi riusciamo a prendere questi soldi da dei grossi donor, in questo caso l'Unione europea.

Il fatto che ci siano questi finanziamenti è una grande cosa.
Senza i soldi, purtroppo... Io trovo molto interessante che le lesbiche siano sempre riuscite a fare le cose, anche se con 4 euro e un sacco di voglia, però alla lunga non ce la fai. Ed è una delle cose per cui gli uomini gay, invece, partono avvantaggiati, ovviamente perché sono maschi e quindi hanno accesso a una serie di condizioni socio-economiche a cui le donne e le persone socializzate come donne non hanno accesso.

Non sapendo queste cose, non avendo mai avuto a che fare con questi aspetti, queste cose non tutt* le sanno. La mia scoperta di EL*C è stata abbastanza recente, da quando ti seguo, appunto, quindi è stato molto interessante sentire la storia di come sia nato il tuo ruolo lì. Questa è una domanda un po' più incentrata sulle politiche europee, in che modo incidono sulle persone lesbiche? Magari anche razzializzate, oppure trans*?
Prima di tutto c'è un discorso da fare sull'Europa. E c'è anche un elemento di compromesso, in qualche modo. Però è chiaro che l'Unione europea è il prodotto di quello che vogliono gli Stati membri. E in questo momento gli Stati membri vogliono delle cose un po' complicate e problematiche. Sicuramente, per esempio, le politiche migratorie, che comunque sono in grandissima parte create a Bruxelles, sono estremamente pericolose per le persone lesbiche razzializzate, nel senso che la politica di criminalizzazione della migrazione fa in modo che le persone LGBTQ+ del Sud globale che cercano di venire in Europa, nel viaggiare si debbano occupare sia dell’omobitransfobia che del razzismo, e anche delle politiche migratorie che cercano di criminalizzarle a ogni passo che fanno. E in questo l'Unione europea ha una grossa responsabilità. Il patto sulla migrazione che è stato approvato l'anno scorso rende ancora più semplici i rimpatri e la criminalizzazione. E in generale c'è questa politica per cui, per esempio, le politiche del governo Meloni… l'Unione europea non è così in disaccordo, non trova che siano così problematiche. Tutt'altro. Anche l'idea dei centri in Albania. Dai rappresentanti e dalle rappresentanti della Commissione europea hanno fondamentalmente gli applausi. Quindi questa roba qua è estremamente complicata. Rispetto alle questioni trans*, invece, c'è un problema di competenze, nel senso che l'Europa non ha competenze su questioni che hanno a che fare, per esempio, con l’autodeterminazione di genere. Però l'Unione europea da un punto di vista politico per il momento è abbastanza progressista, nel senso che spinge molto all'idea dell’anti-discriminazione. E le persone trans* spesso sono incluse, per esempio, nella strategia dell'Unione europea per l'uguaglianza LGBTIQ, sia in quella di cinque anni fa che quella di quest'anno, entrambe comunque molto pro-trans. Ed è però in un discorso sempre di non-discriminazione, niente violenza... Non è un vero discorso di empowerment. Per esempio, loro non fanno enormi pressioni sugli Stati sulla questione dell'autodeterminazione di genere, perché dicono che non sia la loro responsabilità; il che è un po' lo stesso discorso dell'Unione europea sull'antidiscriminazione e la non-violenza sulle persone omosessuali, però sulla questione, per esempio, delle famiglie omogenitoriali o del matrimonio egualitario la giustificazione è sempre: “Non è di nostra competenza, noi non ce ne occupiamo, ci dispiace molto che in alcuni Paesi dell’Unione europea non sia possibile averli, però fondamentalmente non ci possiamo fare niente.” E adesso che comunque l'estrema destra è al potere, o la destra comunque abbastanza estrema è al potere in molti Paesi dell’Unione europea, più ha dei grossi numeri in Parlamento europeo, c’è questa tendenza verso il: “Va bene la diversità, però non pretendete troppo,” che si è un po' accentuata negli ultimi anni. Quindi io ho cominciato a lavorare in questa cosa nel 2022. Già prima lavoravo su questioni europee, io ho un background di Giurisprudenza e di Studi Europei, quindi già lavoravo in questo ambito. Però da quando lo faccio specificamente sulle questioni lesbiche, LGBTQ+ e femministe, diciamo, ho notato che adesso siamo in una fase un po' più complicata, dove ti senti dire: “No, non ci piace,” oppure: “Sì, noi siamo a favore, per carità, noi siamo per le persone LGBT, però cerchiamo di non far arrabbiare troppo Orbán.” Ad esempio, Orbán vieta il Pride e loro ci mettono quattro mesi a dire che questa cosa non gli piace. E poi alla fine Ursula von der Leyen fa un video in cui dice: “Ah no, ma io sono con voi. Orbán, per favore, falli sfilare.” Quindi l'atteggiamento è molto cambiato rispetto al 2021, quando Orbán aveva approvato quella legge sulla propaganda LGBT, che poi è la base del divieto del Pride di adesso. Quando è successa quella cosa lì, la Commissione europea ci ha messo due settimane a tirare fuori lo strumento più potente che hanno, che è la procedura di infrazione. Ci hanno messo due settimane. Adesso che stanno vietando una manifestazione pacifica, quindi non stiamo neanche più parlando di diritti LGBTQ+, stiamo parlando proprio del diritto di assemblea, di libertà di espressione, la base della democrazia occidentale, capito? Quando ti parlano della democrazia occidentale stanno parlando fondamentalmente della libertà di espressione. Siamo a quel livello lì. E comunque ci mettono quattro mesi a dire qualcosa e anche quello che dicono è: “Vedremo, studieremo, ne parleremo. Orbán, per favore, falli sfilare lo stesso”, e poi abbiamo sfilato. Eravamo 200.000, il che ha voluto dire anche che sono venuti un sacco di ungheresi, e che Orbán ha trasformato questo Pride in un referendum sulla sua persona e ha perso. Chiaramente. Abbiamo anche incontrato i fasci, che giravano per il corteo con una croce in cartone per dirci che Dio ci odia. E io gli volevo dire: “Guarda, lo so, sono cresciuta cattolica.”

Quali sono i tuoi sogni o obiettivi per il futuro? Non solo degli attivisti e delle attiviste lesbiche, ma anche per la comunità lesbica in generale.
È una domanda complicata perché io in questo momento ho un po' la sensazione che siamo in una fase negativa. Per il cambiamento sociale ci sono sempre alti e bassi, e secondo me abbiamo avuto un momento di alto e non so neanche quanto ce ne siamo resi conto. Forse non ci rendevamo conto di quanto si potesse andare in basso. Quindi ho l'impressione che in questo momento siamo in un momento calante, che è comunque un atto di resistenza. C'è tanto che si può fare, abbiamo tanti strumenti, una situazione legale e sociale che non avevamo negli anni ‘90, per esempio. Però ho l'impressione che siamo veramente in questo momento un po' di resistenza. Quindi a livello di sogni e di auspici, io ti direi che dobbiamo riuscire a resistere. Però ho anche delle idee un po' concrete sul fatto che riuscire a resistere vuol dire che dobbiamo tenere una comunità che continua ad avere un po' di soldi per fare le cose e un po' di resilienza. Però bisogna in qualche maniera alimentarla, il che vuol dire risorse, fondamentalmente. Quindi continuare in quella strada lì finché riusciamo e poi costruire gli strumenti per andare avanti. Anche gli strumenti di solidarietà con altre lotte e altre identità, ad esempio tornando alle persone migranti, ma vale per molte altre cose. Secondo me questo è il momento in cui dobbiamo cercare un po' di rimanere insieme, o anche usare le reti che ci sono, perché spesso ci sono già e la questione è di usarle. E poi, una volta che questa fase calante passerà – perché passerà, queste cose non durano per sempre –, noi credo che potremmo essere protagonisti della nuova fase progressista. “Noi” in senso ampio, non solo noi lesbiche bianche del Nord del mondo. Secondo me dopo questa fase arriverà un momento di vera spinta, e io mi auguro che riusciamo a cavalcarla in qualche maniera, e anche a provocarla un po' questa uscita dalla fase calante e depressiva. E secondo me questo è il momento del: “Ma io cosa posso fare?” E in realtà ci devi credere che usciremo da questa fase e faremo delle cose più belle insieme dopo questa cosa qua.

Sì, anch'io ci voglio credere.
Io ci devo credere per forza. Per per andare avanti.

Nicole

Ciao! Come ti chiami?
Nicole.

Nicole, quanti anni hai?
Quasi quaranta.

Di cosa ti occupi?
Sono un* consulente IBCLC, ovvero un* Consulente Professionale in Allattamento.

Per parlare di te e della tua identità e orientamento sessuale che parole utilizzi?
Mi considero una persona non-binary lesbica.

Quando hai capito di essere lesbica?
Questa è una storia lunga. Nel senso che sicuramente ci furono avvisaglie già nella fase adolescenziale, ma ho avuto un contorno sociale che mi rassicurava che fosse normale per una persona socializzat* donna avere un certo tipo di atteggiamenti o di idee nei confronti di altre ragazze. Quindi è come se non avessi dato peso al mio sentire. E data l’età che ho diciamo che si cresce anche in maniera molto eteronormativa, e alla fine infatti ho preso quella strada, sempre con dei dubbi. E finalmente, dopo quasi undici anni di relazione con un uomo, liber* da quelle catene per una serie di motivi, sono riuscit* a indagare e ad ascoltarmi un po’ meglio. Quindi ti direi più o meno verso i trent’anni.

Crescendo e scoprendoti, che tipo di rapporto hai avuto con la parola “lesbica”?
In realtà inizialmente era come se questa cosa ci fosse ma non venisse esplicitata, era un po’ come: “Ok, io l’ho capito, le persone intorno a me l’hanno capito”, ero in un contesto dal punto di vista delle amicizie molto ricettivo, perché erano tutti ragazzi gay, tutti orse, tutti che si sono trasferiti a Berlino, quindi diciamo che il mio primo anno l’ho fatto così, avanti e indietro da Berlino a questo contesto, però non c’era una rivendicazione, non c’era niente di politico in questa consapevolezza, era tutto orientato solo ed esclusivamente alla scoperta della mia identità e all’accettazione da parte delle persone che mi circondavano. C’era quel detto non detto ma non avevo bisogno di andarlo a dire in giro.

Invece, per quanto riguarda i pronomi, quali usi?
Preferisco i pronomi neutri, ma vanno bene anche quelli femminili.

Cosa pensi del limite della lingua italiana, soprattutto nel parlato?
È un limite enorme, e me ne accorgo anche perché nasco come linguista, sono laureat* in Lingue e Culture, con un focus proprio sulla mediazione linguistica. Per me questo focus è fondamentale, e il problema è che in teoria, ma soprattutto in pratica, la lingua si dovrebbe evolvere con la società, la fa chi la parla, ma vedo che c’è proprio una disconnessione qui da noi in Italia. Mentre in altri Paesi, sia per una questione culturale che per una questione linguistica, ci si è adeguati e si è dato spazio alla diversità, qui da noi non è così. Io stess* sono vittima ogni tanto di questo tipo di approccio, ma perché essendoci poco uso è difficile entrare in un certo tipo di ottica.

Con questa serie vorrei proprio affrontare questo discorso e aiutare magari a plasmare il linguaggio nel tempo, e vedere i diversi modi in cui ognuno di noi affronta la questione e la vive. Molte persone mi dicono che magari usano i pronomi femminili, accontentandosi e facendosi andare bene quelli.
C’è della rassegnazione.

Esatto. E quindi è importante dare voce a chi vive questa realtà.
Una parte del mio lavoro è anche questa. Io faccio corsi per persone che lavorano nell’ambito materno-infantile sanitario, su come rivolgersi a persone che appartengono alla comunità LGBTQIA+: quindi fornisco un glossario su cosa significa “lesbica”, “gay”, o sulla differenza tra genere, identità sessuale e orientamento sessuale e soprattutto su tutta la parte che ha a che fare col consenso. E nel caso delle persone trans* e non-binary, andare dalla ginecologa, partorire e allattare sono tutti aspetti che in genere vengono designati al genere femminile. Spesso nei confronti di queste persone non c’è mai cura e attenzione sotto questi aspetti. Quindi questa parte comunicativa per me è fondamentale.

Questo è molto bello, dato che non viene fatta educazione sessuale e a volte non vengono fornite neanche le nozioni di base. In che modo la tua identità non-binaria si intreccia con l’essere lesbica?
Partiamo dal presupposto che vivo in questa società, in questa cultura e in questo momento storico, e rimango una persona socializzata donna a cui piacciono le donne. E rientro anche in quello che è il non sentirsi donna. La lesbica non è sempre donna, è semplicemente lesbica. Quindi secondo questa logica e dinamica per me questa è una cosa molto politica, nel senso che il mio non-binarismo deriva soprattutto dallo sganciarmi da tutto ciò che è aspettativa nei confronti di ciò che dovrebbe essere “donna” e “femminile”. Per me l’illuminazione è arrivata dopo il parto e durante l’allattamento di mia figlia. E per me è stato devastante perché stavo attraversando il post-parto, la disforia e la dismorfia. In un certo senso è stato liberatorio, però viverlo è stato complicato. Soprattutto perché non avevo riferimenti. Ero in un contesto lesbico “classico”, in cui anche all’interno delle coppie c’erano i ruoli eteronormativi, quindi la lesbica “maschia” e quella “femmina”. Quindi ero passata da una relazione eteronormativa ed eterosessuale a una relazione lesbica comunque basata sull’eteronormatività. Dunque, per certe cose in realtà era come non sbilanciarsi mai. Mi sono informat* tantissimo online, quello per me è stato fondamentale, perché ammetto io stess* in primis che non riuscivo a capire dove risiedesse il non-binarismo. Capivo il non riconoscersi nel genere assegnato, ma non riuscivo a capire il non sentirsi appartenente a un genere. Poi ho capito. È stato un processo.

Per quanto riguarda gli spazi sicuri, ne hai avuto uno in particolare?
In realtà il safe space me lo sono creat* io. Inizialmente venivo definit* proprio come Iveco, facevo parte di un gruppo di “orse favolose” e venivo etichettat* come “camionista”: c’era una sottile presa in giro, però non ho mai badato troppo a queste cose. Poi, in realtà, nel tentativo di affermarmi come persona non-binaria, dall’altra parte da persone lesbiche non c’era comprensione, nel senso che veniva sempre fatto il discorso da persone privilegiate, ovvero: “Siamo tutte persone, che bisogno c’è di-”... Invece no, c’è bisogno. Io ho bisogno di esprimermi così. Qualcosa si è andato a creare quando ho conosciuto persone molto più giovani di me appartenenti a un collettivo, che mi hanno aperto la mente su alcuni aspetti. Quindi lì ho iniziato ad affermarmi sempre di più, senza dovermi spiegare troppo.

Cosa ti fa sentire visibile e compres* nella tua identità? Che sia il modo di vestire, o qualsiasi altra cosa.
Io sono in trasformazione sul mio corpo praticamente da quando ho potuto agire liberamente per cose che mi porto dietro dall’adolescenza. Sicuramente sì, l’abbigliamento è espressione di quello che sono su più livelli. Mi stai incrociando in un periodo in cui non mi riconosco e non mi vedo, quindi sono in un’ennesima crisi, vorrei vedermi androgin*, ancora più neutr*, però so che probabilmente per il tipo di tratti e di fisicità che ho è qualcosa che difficilmente potrei raggiungere. L’abbigliamento un po’ aiuta e tampona la cosa.

Pensi di provare proprio disforia o si tratta di qualcos'altro?
In questo momento forse è qualcos'altro: se potessi non avere il seno sarei più content*, ma non mi crea particolare disturbo. È più una percezione che ho. Anche se questo penso sia tipico di molte persone non-binarie, è come se si dovesse quasi dimostrare qualcosa nel come si appare perché se no non si viene pres* sul serio. O sei troppo femminile, o troppo maschile. Bisogna costantemente dimostrare qualcosa. Non c’è questa cosa di permettere all’altro di essere, semplicemente.

Cosa immagini per il futuro della comunità lesbica?
Meno vergogna e più orgoglio. A volte non ci riconosciamo le fatiche, l’atto di resistenza che c’è nell’esistere e basta. Per come usciamo, per come ci presentiamo, a volte anche senza parlare, siamo comunque visibili. E poi tanta sana rabbia. Perché purtroppo siamo invisibilizzate come persone e tendiamo a invisibilizzarci, perché a volte è l’unico modo per sopravvivere. E non è giusto.

Come mai hai voluto prendere parte a questo progetto?
Penso che, così come io sono arrivat* alle mie consapevolezze tramite le esperienze di altre persone, allo stesso modo magari ci possono essere persone di quarant’anni, genitori, persone che hanno dei dubbi o che si sentono in un certo modo, possiamo far vedere loro che ci sono tante possibilità e alternative, e che possiamo renderci conto di tante cose non solo a quindici anni, ma anche un po’ più avanti.

Miriam

Come ti chiami?
Mi chiamo Miriam Pilia.

Quanti anni hai?
25.

Di cosa ti occupi?
Studio Cinema a Milano, sto facendo la magistrale, mi sto specializzando in Cinema.

Per parlare della tua identità e del tuo orientamento che parole usi in genere?
In genere cerco di non definirmi, non perché non voglio farlo, ma perché non mi sento a mio agio nel farlo. Nel senso che ho sempre molta paura di vedere la reazione delle persone. Quindi se posso evitare, faccio dei giri enormi pur di non arrivare al punto.

Secondo te c’è una sorta di vergogna o di paura?
Penso si tratti sia di vergogna che di paura. Principalmente perché sono cresciuta in un contesto molto religioso e anche solo pensare di essere diverso dalla norma fa paura, e poi perché ancora oggi rimane uno stigma gigantesco e ho sempre molta paura di vedere la reazione delle persone, magari vedere che cambiano atteggiamento nei confronti [di chi è diverso], poi certo, se dovessi usare un termine sicuramente sarebbe “lesbica”. Per tanto tempo mi sono definita bisessuale, pur di non dire che ero totalmente dall’altra parte. Ma non mi identifico per niente in quel termine.

Quali pronomi usi?
Uso quelli femminili.

Perché hai deciso di prendere parte a questo progetto e cosa significa per te entrare a far parte di un archivio fotografico della comunità lesbica a Cagliari?
Perché penso che sia fondamentale iniziare a prendere le redini di ciò che siamo, e rivendicare anche i nostri diritti, perché ho visto che in quanto donne o persone che si identificano come tali, siamo ancora discriminate e siamo discriminate dentro la comunità. E quindi penso che sia giusto da parte nostra riprenderci i nostri spazi e rivendicarli. Credo che sia un progetto importante per questo motivo. Sono stanca di essere “emarginata” nell’emarginazione.

È un argomento che è spuntato fuori molto spesso in queste interviste. Noi in teoria siamo la prima lettera dell’acronimo LGBTQIA+, ma in qualche modo ci ritroviamo sempre in disparte.
Sì, è come se valessimo di meno. Quello che emerge è che, nonostante spessissimo le rivendicazioni e le rivolte nascano dalla comunità lesbica o più in generale dalle femministe, spesso le donne sono quelle che portano all'attenzione certi temi, e nonostante questo sono sempre quelle più emarginate.

Mi chiedo se sia perché in un certo senso “decentriamo” l’uomo, in tutti i sensi.
In ogni caso, che sia all’interno della comunità o fuori, rimane il fatto che è un mondo fondato sul patriarcato, ed è fallocentrico, e a prescindere da tutto comunque ci sarà sempre una “scala sociale” e noi verremo sempre dopo, fino a quando non ci riprenderemo il nostro posto. E in parte l’abbiamo fatto, però ora che c’è tanta consapevolezza secondo me bisogna agire e far vedere che ci siamo e che sappiamo di esserci.

Hai avuto un modello nella tua vita che ti ha aiutato ad accettarti e a prendere consapevolezza della tua identità o è una cosa che è venuta spontanea con la crescita?
Non ho avuto modelli, e per questo è stato in realtà un processo molto difficile e molto lungo, e anche molto sofferto, perché fino all’ultimo non l’ho voluto accettare, e anzi ho iniziato a dire alle persone di essere lesbica un anno fa, nonostante sia ormai da 10 anni che ho relazioni con altre ragazze. E, paradossalmente, ho iniziato a riuscire ad esserlo e ad accettarlo dopo essere andata in terapia, perché la mia psicologa insinuava che io non lo fossi. Il fatto che io non riuscissi a dirlo, secondo lei, era perché non lo ero davvero. E questa cosa mi ha talmente fatto arrabbiare che ho detto basta: adesso lo dico a voce alta perché lo sono e non voglio che si dubiti di questo, perché ho lottato molto con me stessa per riuscire ad arrivarci. Forse la persona che mi ha aiutato di più in assoluto è la mia attuale ragazza, che è sempre stata molto più consapevole di se stessa e mi ha aiutato a superare questo limite e ad accettarmi un po’ di più, perché anche con le altre relazioni che ho avuto comunque mi sentivo molto sbagliata e mi facevano sentire un po’ sbagliata, mentre la sua maturità e il suo esserne così fiera mi ha fatto pensare che se può [farcela] lei posso farcela anche io.

È bello avere una persona che può farti sentire validata e mostrarti come può essere la tua vita dopo esserti riscoperta. Dato che hai menzionato la tua ragazza, ti va di dirmi un po’ come nella relazione affrontate il discorso della mascolinità e la femminilità e delle etichette in generale, come butch, masc, femme?
Le usiamo principalmente per scherzare, ma non le usiamo. Diciamo che io non ne trovo una in cui mi ritrovo appieno. Forse esiste ma non la conosco. Mi reputo un po’ a metà strada, però non riesco a trovarne una in cui dico: “Sì, okay, sono io”. Magari un giorno sono masc, il giorno dopo non lo sono.

L’italiano poi non offre una vera scelta di termini.
Sì, e la questione della mascolinità è particolare. La mia ragazza fa il drag king, e lei affronta il suo lato mascolino portandolo sul palco per farlo emergere. Io non ho questa necessità, però sin da piccola sono sempre stata chiamata maschiaccio: mi dicevano di mettere le gonne, di sedermi composta. Eppure non mi reputo masc, anzi, sono sempre stata convinta della mia femminilità, però è un modo valido di esprimersi. Semplicemente non mi ritrovo in quei canoni.

Riconoscere la propria femminilità è molto importante. Io non penso che riuscirò mai a scindermi dall'essere percepita come una donna, nonostante in me ci sia una sorta di rifiuto.
Qual è il tuo luogo sicuro in cui puoi sentirti te stessa, ad esempio a Milano rispetto alla Sardegna?
Rispetto alla Sardegna sicuramente Milano è un posto in cui è più facile essere se stessi, non perché non ci sia giudizio, ma perché ci sono tante altre persone come te. Lì ad esempio ci sono dei locali, come il Pop, che è un bar qualunque, ma si sa che è una sorta di ritrovo di lesbiche. E lì sicuramente mi trovo bene. Qui in Sardegna faccio un po’ fatica. Ad esempio, il portachiavi che hai visto [a forma di vulva, N.d.A.] qui non lo uso in genere, mentre a Milano ce l’ho sempre attaccato ai pantaloni e non mi sono mai posta il problema che potesse dare fastidio a qualcuno.

La Sardegna deve un po’ maturare da questo punto di vista. Ne parlavo con un’altra persona, qui tendiamo a guardare male chi anche semplicemente si veste in maniera diversa.
Cosa speri per il futuro delle lesbiche nella società e, visto che ne abbiamo parlato, nella comunità LGBTQIA+?
Nella società sicuramente che vengano riconosciute senza essere sessualizzate come lo sono adesso, perché secondo me lo stigma più grande rimane questo: che la parola lesbica viene associata alla sessualizzazione estrema, ed è quello che rende la parola così difficile da dire. Quindi spero questo, che venga fatta una scissione tra quello che è l’ideologia della parola e quello che è realmente: una donna o una persona che ama un’altra donna. Nella comunità, spero tanto che ci si metta una mano sulla coscienza e si inizi a capire che solo perché sei dentro la comunità non vuol dire che non applichi nel quotidiano i danni del patriarcato. Non è perché ti reputi una persona che sostiene le donne che non fai anche tu degli errori in questo senso.

Speriamo che nascano anche altri eventi come la Dyke March.
Sicuramente. A Milano ho partecipato a un evento in cui una persona passava il microfono a tutti e ognuno parlava di un momento in cui si è sentito discriminato. È stato difficile, però la gente era tanto contenta. Sicuramente servono più eventi dei genere non solo a Milano, ma ovunque.

Anna

Come ti chiami e di cosa ti occupi?
Mi chiamo Anna, ho 21 anni, studio Archeologia a Malta. Sono una butch lesbian, mi piace identificarmi in questo modo, mi ci ritrovo tanto e usando questo termine sono riuscita piano piano a capire chi sono e che ruolo voglio avere nelle relazioni che ho con le altre persone.

Che pronomi usi?
In Italiano she/her e in inglese anche they/them: in realtà per me il pronome non cambia più di tanto rispetto al mio modo di presentarmi, di vestirmi e agli aggettivi che uso. Ad esempio, il termine “ragazza” non lo uso, non mi ci identifico.

È un grande limite della lingua italiana che non esistano pronomi neutri. Quando hai capito di essere una butch lesbian?
Ho capito di essere butch penso a 17 anni, quando ho fatto coming out come lesbica. Prima mi identificavo come bisessuale. In quell’anno lessi “Stone Butch Blues” di Leslie Feinberg, un libro che aveva a che fare con l’identità lesbica che ha cambiato completamente la visione che avevo di me stessa. Ci è voluto del tempo per riuscire ad esprimermi, a trovare l’abbigliamento giusto, un taglio di capelli o piercing che mi facessero sentire a mio agio e che mi aiutassero a creare la persona che volevo essere. Ovviamente chissà quante altre cose potrò fare, però sì, è stato un processo lungo.

Ti è capitato in questi anni di trovare difficoltà a usare la parola lesbica oppure l’hai sempre usata senza problemi per definirti?
Mi è venuto molto spontaneo usarla, appena ho capito di esserlo. Ho passato un sacco di anni a dire di essere bisessuale o pansessuale, a usare diverse labels quando ho capito di non essere eterosessuale, però non sapevo che nome darmi. Quindi quando poi ho capito di essere lesbica, ho iniziato immediatamente a usare quella parola.
La prima cosa che ho fatto è stata comprare la bandiera e appenderla in camera, perché avevo proprio bisogno di riunirmi con questo termine e con la cultura e il mondo lesbico, senza i quali mi sarei sentita assolutamente persa. E quindi da lì è diventato quasi il mio secondo nome, perché mi piace proprio dire di essere lesbica, non gay o omosessuale.

È bello sapere che tu abbia avuto una concezione positiva della parola. Io, ad esempio, sono cresciuta odiando la parola, e solo grazie a telefilm o figure importanti per me sono riuscita ad accettarla. Io guardavo “Glee”, e quando ho sentito Santana Lopez dire “Io sono lesbica” per la prima volta, mi si è aperto un mondo.
Io ho capito di essere lesbica grazie a “Euphoria” perché mi piaceva tantissimo quando ero alle superiori, e quando nel 2021 uscì l’episodio speciale incentrato su Jules, una sorta di lunga conversazione con una terapeuta, lei disse di voler decentrare gli uomini dalla sua vita. Disse proprio quello che io provavo in quanto lesbica. È stato un momento di gioia pura e di adrenalina, perché è stato come guardarmi per la prima volta in faccia e accettarmi per quello che ero. Quindi io esisto come persona Anna e poi come lesbica, quello che sono come persona a livello di interessi e di cosa mi piace fare nella vita.

Abbiamo parlato del liceo, c’è stato uno spazio sicuro in cui ti sei sentita capita oppure ti è capitato di sentirti isolata?
Il primo anno di università ero un po’ presa dall’euforia di aver capito chi ero, stavo diventando la reale versione di me stessa e nessuno mi giudicava. Però piano piano parlando con le persone mi sono resa conto che purtroppo venivo comunque giudicata per il mio modo di essere. A volte mi sento tagliata fuori dal mondo. Perché vivere come una persona lesbica ti dà una visione del mondo diversa da chi si relaziona con gli uomini. Le persone ti vedono in maniera diversa, ti considerano inferiore e ti attribuiscono caratteristiche sbagliate. Cerco però di tenere a mente che non sono io quella sbagliata, ma sono gli altri a non volermi capire o a non trovarsi a loro agio con la mia presenza.

Mi piace molto il modo in cui rivendichi l’identità butch, perché mi ci rivedo anch’io. Come ti rapporti con questa identità?
Può essere difficile spiegare questa identità perché varia da persona a persona. Per me, vuol dire principalmente proteggere le persone a cui tengo (non come Batman!), proprio avere molto a cuore le persone attorno a me, sostenerle ed essere una colonna per loro, una figura su cui possono contare. Ovviamente non assumo sempre il ruolo di provider, ma avviene sempre uno scambio ben equilibrato. Inoltre, per me l’essere butch ha anche a che fare molto con la manualità, quindi con la capacità di creare, sistemare, costruire e rattoppare le cose, e non è un caso che la storia di questa identità derivi dalla cultura underground di chi faceva il muratore. Quindi, sia metaforicamente che letteralmente, mi piace mettere le basi e costruirci sopra qualcosa, che si tratti di un rapporto di amicizia o di assemblare un mobile di Ikea. E il lavoro che sto facendo come archeologo e il fatto di usare il mio corpo sono molto importanti per me a livello di identità. Per un sacco di tempo, poi, ero distaccata dal mio corpo perché non riuscivo a far coincidere la mia parte spirituale con la mia parte fisica, ho provato disforia di genere, e da lì ad esempio ho iniziato a utilizzare il binder e vestiti considerati “maschili” che mi fanno sentire più connessa con me stessa. Ora ho capito come devo muovermi per riuscire ad avere un rapporto positivo con il mio corpo, non mi viene da piegare le spalle, da chiudermi a riccio come prima. Anche i piercing e i tatuaggi mi hanno aiutato tanto ad accettarmi. Ho un tatuaggio sulle nocche che dice “Stay Soft” perché metaforicamente le mani possono fare tanto male alle persone e possono essere mezzo di violenza, invece per me sono qualcosa che deve costruire e compiere azioni positive. Il ruolo che mi do io in quanto butch è questo.

Capisco benissimo il discorso della disforia. Anche io uso il binder e il tape e molto spesso tendevo a incurvare le spalle. Come vedi l’essere butch con il binarismo che viene imposto dalla società?
Per me essere butch vuol dire cancellare completamente il concetto di femminile in quanto donna e maschile in quanto uomo. Se prendiamo in considerazione queste categorie, la mascolinità di un uomo è completamente diversa dalla mia. Per me, il comportarmi e l’avere un’espressione di genere mascolina non è una mascolinità da uomo ma proprio mia, reinventata. Ad esempio, il fatto di indossare i boxer, visti come abbigliamento tipicamente mascolino, per me è stato il primo passo verso il far coincidere la mia identità di genere con il modo in cui mi vedo.
Bisogna anche considerare che nella storia della nostra comunità ci sono state lesbiche che hanno preso il testosterone, che hanno indossato il binder o hanno usato pronomi e termini tipicamente maschili, ma non si identificavano categoricamente come uomini, semplicemente volevano sentirsi a proprio agio nei loro corpi. Leslie Feinberg ha preso testosterone, ha fatto la mastectomia, ma non era un uomo. E per molte persone questo non ha senso, perché per loro prendere il testosterone e fare la mastectomia equivalgono categoricamente all’essere un uomo trans. Ad esempio, la mia ragazza mi chiama il suo ragazzo, e io mi ci ritrovo perché, semplicemente, sono io. E viene tutto naturale, io non gliel’ho mai dovuto chiedere.
Ancora forse non abbiamo le parole per spiegarlo, io a volte mi trovo in difficoltà a spiegare la realtà che vivo, perché per me è una cosa spontanea e giusta. Il vestirmi, il modo di abbellire il mio corpo è una cosa che faccio più per validare la mia identità in quanto butch che per assomigliare a un uomo. Finché io mi sento a mio agio, mi vedo allo specchio e dico: “Sì, ha senso,” questa roba che ho addosso e questo modo che ho di presentarmi è il mio modo per conciliare la mia identità e il mio aspetto.
Tornando alla domanda, la mascolinità delle butch è una cosa che viene costruita e imparata, guardando gli altri, cercando su Internet, non viene imposta dalla società. Ha una storia, ha motivi economici e di classe, le butch negli anni Cinquanta si vestivano in un certo modo perché facevano i manovali, usavano uniformi che oggi vanno di moda. Ed è una mascolinità in completa evoluzione.

E non è una mascolinità tossica come quella imposta agli uomini dalla società.
Esatto. Quando mi relaziono con un uomo eterosessuale, io non riesco a ritrovarmi nel suo modo di fare. E purtroppo bisogna dire che ci sono lesbiche masc che ripropongono i comportamenti degli uomini, trattano le donne come pezzi di carne, come conquiste, non hanno rispetto per loro o per la comunità. Quindi la mascolinità diventa un costume e non ha più un significato simbolico, e si entra in una dinamica di competitività, dell’essere il “maschio alpha”. Quando invece la mascolinità butch ha a che fare con il rispetto reciproco e si declina in modo diverso. E c’è chi dice che siamo una figura patriarcale all’interno della comunità lesbica, quando invece la nostra sola esistenza rompe completamente il concetto di patriarcato.

Anche dando un po’ nell’occhio, magari.
Esatto, la gente nota le persone gender-non-conforming, perché siamo diverse e ci mettiamo un po’ anche a rischio vestendoci e comportandoci in un certo modo. Quando salgo sul pullman o mentre cammino mi è capitato di ricevere insulti, di sentirmi urlare contro, ma io ne vado fiera, per me è un orgoglio: io voglio essere così e sarò così. Non penso ci sia una versione di me che vorrebbe essere diversa da quello che sono. Sento che se ci fossero universi paralleli, io sarei comunque uscita fuori in questo modo, perché è una parte integrante della mia personalità.
A questo proposito, il moschettone, da sempre simbolo delle lesbiche nella nostra storia silenziosa e che non tutti conoscono, la comunità lesbica è stata anche portatrice di rivoluzioni nel campo della moda, dei trend. Quando un uomo si vuole distaccare dalla mascolinità tossica, preferirà copiare o prendere ispirazione da chi ha sofferto o ha fatto una determinata vita.

Com’è stato il tuo coming out?
Io ho fatto coming out con mia madre a 12 anni, e credevo di essere diversa, poi ho avuto una fase in cui sentivo di essere bisessuale; lei mi chiese se magari fosse solo una fase e ad oggi ho capito che aveva solo paura per me. Bisogna sempre accertarsi di avere una famiglia intorno che capisce la situazione e ti sostiene, perché non tutti hanno il privilegio di poter fare coming out, e vivere a Cagliari o in Sardegna come una persona queer non è sempre possibile. La nostra è una città che non è di destra, però c’è molto stigma verso il diverso, la gente ha la mentalità paesana, ristretta, e se esci un po’ fuori dalla riga ti guardano come se fossi un alieno. Mostrarsi per ciò che si è è difficilissimo, nonostante il Pride, nonostante siamo in tanti. Io un po’ me ne sono andata anche per questo, perché la gente ti fa sentire sbagliato, diverso, anche se fuggire da qui non è mai facile.

Ultima domanda: cosa speri per il futuro della nostra comunità?
La comunità lesbica sarda è importantissima per me. Io ci tengo a trovare persone come me, perché non è facile. Spero in un futuro in cui sia più semplice fare coming out, sono convinta che nonostante tutte le difficoltà, si arriverà ad avere una Dyke March come quella di Roma anche qui.
Riprendendo il discorso della manualità, si tratta di ritagliare il nostro posto nel mondo: dobbiamo prendere e scavare il nostro spazio senza metterci paletti, creare un luogo per noi in cui trovare persone come noi. Quindi unire la Sardegna, da Cagliari a Sassari, e dare speranze alle lesbiche che vivono in questo contesto. Un contesto isolano ritagliato dal resto, ma con un contesto socio-culturale ed economico molto grande e ben saldo.

Francesca

Come ti chiami?
Mi chiamo Francesca. Vengo da Cagliari, più precisamente da Monserrato. Vivo però a Berlino da due anni ormai. Faccio la cameriera principalmente, ma al momento mi sto preparando per studiare Psicologia a Berlino. Prima devo studiare il tedesco.

Quanti anni hai?
Ho 28 anni. 

Per parlare di te, della tua identità e del tuo orientamento sessuale, che parole utilizzi?
Mi definisco lesbica.

Quando hai capito di esserlo?
L’ho capito a 15 anni, prima mi definivo bisessuale, ma frequentando i ragazzi mi sono resa conto che non mi piacevano e che ero molto più attratta dalle donne.

Hai mai trovato difficoltà nell’utilizzare la parola “lesbica” per descriverti, considerando lo stigma verso questa parola?
All’inizio facevo i conti con la mia omosessualità con molta difficoltà e ho trovato un forte stigma nei confronti della parola “lesbica” e delle lesbiche in generale. Sono stata bullizzata al liceo per il mio orientamento sessuale, e quindi ho subìto anche le solite frasi da machista, come “Ti faccio provare il mio”, “Non hai mai provato un uomo vero”, e quindi ho sempre trovato difficoltà. La mia vera e propria accettazione è successa da qualche anno a questa parte. Prima avevo difficoltà ad accettarmi nonostante l’avessi sempre vissuta in maniera libera, anche con la mia famiglia. Loro sono super queer-friendly e addirittura hanno un locale che ha supportato il Sardegna Pride. Quindi sono cresciuta in un contesto in cui tutti mi accettavano, però io ancora non riuscivo ad accettarmi.

C’è stata quindi una figura, oltre alla tua famiglia, che ti ha aiutato ad accettarti, oppure è stata una cosa spontanea?
Sicuramente c’è stata una persona che mi ha aiutato ad iniziare questo percorso, la mia ex-ragazza. Mi ha aiutato molto ad accettare il mio orientamento sessuale.

È importante avere un sistema o anche solo una persona che ti aiuti ad accettarti e a non sentirti sola. Qual è stato il tuo ambiente sicuro, che ti ha aiutato a sentirti protetta?
La famiglia. Ho fatto coming out con mia madre a 14 anni e con mio padre a 16 anni. Mia madre all’inizio non lo accettava, addirittura mi diceva di non portare ragazze a casa! Poi piano piano l’ha accettata e addirittura invitava la mia ex, la domenica a pranzo. Quando facevo la stagione, la portava con sé e con mio padre a trovarmi. Era come se fosse tutto naturale.

Che pronomi usi?
Io uso she/her ma anche they/them. Ho fatto i conti con la mia identità di genere recentemente. Mi definisco molto fluida: ci sono dei momenti in cui mi sento più fem e dei momenti in cui mi sento più masc. Anche se sinceramente non mi piace molto usare questi termini, sono utili per spiegare come mi sento.

Com’è avvenuta la presa di coscienza della tua identità di genere?
Ho iniziato a farmi delle domande sulla mia identità di genere già dall’anno scorso. A 16 anni sentivo di essere molto più uomo che donna. Addirittura volevo iniziare un percorso di transizione e fare l’operazione. Poi piano piano questa cosa è scemata perché ho iniziato a fare i conti con la mia femminilità. Secondo me in ognuno di noi coesistono una parte femminile e una maschile. E alla fine c’è una neutralità che va abbracciata e con cui io ho fatto i conti dentro di me. Quindi da un anno a questa parte non mi sento né donna né uomo, e a volte sento di essere donna e a volte di essere uomo. Soprattutto adesso che mi sono tagliata i capelli in questo modo, mi sento molto più vicino a una certa “mascolinità” che a una certa “femminilità”. 

Capisco al 100%. Io proprio da pochissimo ho fatto il secondo coming out, quello da persona non-binaria, e ho parlato con mio padre della possibilità, in futuro, di fare la mastectomia (mascolinizzazione del torace) ed è stato molto liberatorio, perché avere in famiglia qualcuno che ti ascolta e che ti supporta è importantissimo. Detto questo, cosa immagini o cosa desideri per il futuro delle lesbiche e delle persone non-binarie?
Sono tra il positivo e il negativo. Spero che un giorno verremo riconosciute come persone e non solo come corpi femminili o di donna, perché anche per le persone trans* è difficile mostrarsi.

È proprio questo il fulcro del progetto: sia il fatto di identificarci con la parola “lesbica” che con termini che non si basano sul binarismo di genere. Io. personalmente, mi sento molto attaccata alla parola “lesbica” perchè al momento c’è - e penso ci sarà sempre - una parte di me che si mostra così alla società, però allo stesso tempo rifiuto quello che la società mi impone di essere. In te convive questo contrasto?
Io non sento questo contrasto, ma mi viene da pensare a una ragazza trans di cui mi sono infatuata, che stava iniziando il percorso di transizione. Mi chiese come io mi identificassi in relazione alla sua transizione e io senza nessun problema le risposi di essere lesbica, perché io in lei già vedevo una donna, quello che lei sentiva di essere. Ed è da lì che ho iniziato a interrogarmi sulla mia identità di genere. Sentivo che ci fosse una differenza tra quello che sentiva lei e come ci vedevano gli altri. Nella società di oggi c’è ancora questo binarismo molto radicato: le stesse persone queer possono essere molto transfobiche e spesso davano per scontato che la nostra fosse una relazione etero, mentre io la sentivo come una relazione tra due donne.

È bello sottolineare che le lesbiche non sono transfobiche. Esistono lesbiche che frequentano e onorano le donne trans* e il loro percorso e se ne parla troppo poco, così come esistono le lesbiche trans*.
Quindi, abbiamo parlato della parte negativa. Cosa vedi di positivo nel futuro della comunità? Pensi che ci apriremo di più alla diversità?
Io spero che ad un certo punto non ci saranno più le etichette ma solo persone. Il fatto di voler sentirsi parte di un gruppo in base a una definizione è dato dalla società in cui viviamo, e l’umanità ha bisogno di avere delle spiegazioni e dare delle definizioni per tutto. Quindi spero che un giorno le etichette vengano considerate solo delle definizioni in se stesse, ma che non definiscano le persone. Le persone sono persone in quanto tali. E spero che quelle che vengono considerate diversità diventino la normalità per tutti.

Che diventino punti d’incontro e non motivi per non accettarsi.
Esatto. E sento molto anche una sorta di ghettizzazione da parte nostra. A Berlino si parla molto di safe space per le persone queer, e trovo giusto che esistano, però penso che prima o poi anche i contesti “eterosessuali” debbano diventare sicuri per noi, o non ci sentiremo mai parte di una comunità che sia collettiva e non solo queer. Prima di tutto noi dobbiamo sentirci “normali”, nonostante non mi piaccia affatto utilizzare questa parola. Spero in un futuro migliore.